martedì 4 novembre 2014

Manga non manga

Dopo questo lungo silenzio mi sento quasi in obbligo di raccontare la continua sventura che, manconemmenoapensarlo, non accenna a smetterla di abbattersi su di me e sui miei organi interni. La notizia è che Acciaio è ancora a Berlino e che sta ancora cercando una casa dove vivere sereno ed in tranquillità in un rifugio che protegga dal logorio della Big City. Va da sé che niente casa propria, niente bagno proprio.
Proprio questa sensazione di privazione del proprio personale regno, unito alla mia continua ricerca di una camera dove stare, crea situazioni spesso al limite dell'assurdo.
La mia giornata tipo consiste nello svegliarmi, fare un programma della giornata e cominciare a girare l'intera città bussando alle porte dei vari affittuari che cercano un coinquilino. Pratica già difficile e stressante di per sé, un'assolata giornata di fine settembre si dipinge con i colori del dramma. Tosto mi accingo a mostrare gli eventi: dopo aver svolto delle commissioni, vedo occupata la tarda mattinata in un piccolo appartamento in zona piuttosto periferica e molto residenziale, ergo: presenza di bar o luoghi pubblici nelle vicinanze quasi nulla. Sembra un dettaglio di contorno ma in seguito risulterà determinante.

Uscendo dalla fermata della metropolitana, mi metto alla ricerca della porta a cui dovrò bussare, ricordo chiaro e tondo un pensiero che mi attraversa la testa “oibò, il caffè della colazione sta avendo i suoi effetti, fra poco dovrò esercitare delle funzioni escretorie”. Parola per parola. Come se non conoscessi il funzionamento delle mie interiora, come non sapessi il pericolo mortale. Tant'è che, leggiadro come la rugiada una mattina primaverile, entro nella palazzina dove trovo una distinta signora asiatica di mezz'età che subito si prodiga in gentilezze ma soprattutto raccomandazioni. La donnina infatti (bisogna immaginarsi la gentile ma severa madre di qualsiasi manga), mi mostra il piccolo ma curatissimo appartamento e precisamente che lei è una persona molto pulita e vorrebbe qualcuno con uguali caratteristiche. Io, dal canto mio, provo a parlare, a mentire e provare a piacerle ma alla seconda sillaba mi risveglio come da uno stato di trans, come se non lo sapessi, mi viene alla mente che, tanto per cambiare, devo spregevolmente peccare nel primo bagno disponibile.

Ma il fato come al solito si diverte alle mie spalle e proprio mentre sto elaborando questo pensiero, la mamma manga pronuncia questa frase: “In casa si condivide tutto ma ci sono cose che l'attuale ragazzo usa di più, ad esempio usa tanta carta igienica e per questo se la compra lui”. Io a queste parole sbianco ancora più di quello che già non sono e accenno un sorrisino più falso dei fiori che ci sono all'ingresso e bofonchio cose tipo: “ah-ah-ah anche io ne uso”. Sento il bisogno di fuggire ma i muscoli sono sotto sforzo nella zona basso ventrale, mi congedo rapidamente e a passini molto brevi mi avvio verso l'ascensore per uscire da quel posto e trovare un posto intimo dove io possa ritornare alla vita di sempre. E' la stessa storia che si ripete mille volte sotto diverse maschere, i tremendi attimi che passano sono infiniti e l'agitazione e la concentrazione che occupano zone diverse del mio corpo mi impediscono di capire che l'ascensore è fuori servizio e io sto schiacciando da due minuti un tasto per richiamare il nulla. A passini sempre più corti l'un dopo l'altro mi avvio verso le scale dove, a questo punto, ogni sobbalzo e ogni vibrazione potrebbero essere fatali per gli sfinteri. Dopo aver sceso la prima rampa di scale mi fermo a ragionare in mezzo al pianerottolo dato che la discesa è costata fatiche e pericoli immani e all'esterno non ho scorto nessun luogo pubblico dotato di toilette. I petali delle scelte che ho a disposizione vengono drasticamente ridotti, l'opzione giardino è assolutamente scartabile visto che è pieno giorno e le mille finestre delle palazzine presenti nella zona nascondono sicuramente degli occhi indiscreti. Tra le mani mi rimane un solo petalo, quello più piccolo, sporco e umiliante. Facendo uno sforzo disperato risalgo le scale, vado verso la porta della mamma e suono il campanello. Lei riapre guardandomi incuriosita e io, che a quel punto non so più parlare in italiano figuriamoci in tedesco, le faccio capire non so come che ho bisogno del bagno, quello del io-sono-super-pulita-non-divido-la-cartigenica-brutti-sudicioni, in un secondo mi ci fiondo e mi libero dell'ultimo residuo del mi venerdi sera, purtroppo il bagno ci metterà molto di più ad eliminare i segni del mio passaggio. Cerco di usare meno carta possibile, di usare con parsimonia il lavandino e di asciugarmi le mani sui pantaloni, a quel punto esco dal bagno più costernato che mai chiedendo mille volte scusa alla mamma che quel punto si era messa a vedere amabilmente la tv. Lei, con un sorriso che sembrava vero, mi dice che non c'è nessun problema e mi riaccompagna alla porta. Io esco e fuggo lontanissimo.

Per tutto il giorno ho pensato alle possibili reazioni della mamma appena dopo avermi salutato, sicuramente si è lanciata subito dentro il bagno per controllare lo stato generale delle cose, lì (facendo una faccia tipica manga con la vena disegnata sulla fronte) si sarà accorta dell'orrenda aria impestata, dello stato del water, della finestra semiaperta e dell'asciugamano che io, mendace nel midollo, ho affermato di non aver toccato ma che inspiegabilmente era bagnato. Ma a quel punto io ero già in altri lidi, al sicuro.

Per la cronaca la casa era molto carina e ben curata, un ottimo luogo dove poter riposare le proprie membra dopo una dura giornata produttiva. Purtroppo, per qualche motivo che ancora non riesco a cogliere, sto ancora aspettando la risposta della cordialissima che dopo un mese ancora non mi richiama. Forse ha perso il mio numero, forse è deceduta, chissà...


lunedì 16 giugno 2014

Le care abitudini di una volta

Torna, dopo tempo immemore, una di quelle care e vecchie storie di una volta in cui il buon Acciaio si copre schifosamente di vergogna. Il motivo dell'ultimo capitolo di questo disagio rientra nella casistica classica delle detonazioni basso-ventrali: la grigliata.
Dopo oltre 7 mesi che sono a digiuno di questa pratica a me tanto cara, finalmente si presenta l'occasione per poter partecipare ad una di esse; Felice come un bambino, vado in uno dei tanti laghetti che costellano la periferia berlinese. La situazione è quella di sempre: carnazza a profusione, qualche verdurina buttata li giusto per darsi l'illusione che si è in grado di variare, aggiunti a vari malefici intrugli alcolici.
La giornata passa allegra e il miracolo della digestione compie, come sempre, il suo dovere trasformando i sopracitati nel mezzo che spesso riempie le giornate di tutti. Felice, mi avvio verso casa. Ora, solitamente quando cito il mezzo pubblico, lo faccio perchè è lì che il disastro puntualmente si compie. Invece no, va anche peggio, perchè io, l'ultimo tram per casa riesco anche a perderlo. Poco male, devo camminare si e no per un chilometro, l'ho fatto un sacco di volte. Mi avvio lesto verso casa non curante di una serie di elementi: 1- ho le scarpe fradice causa bagno nel lago, passeggiare non è certo agevole. 2- Sono vestito leggerissimo, magliettina e pantaloncini (per altro bagnati anch'essi). 3 – IL VENTICELLO, inesorabile, freddo e costante che si insidia sottopelle e causa catastrofi. 
E catastrofe fu.
Dopo aver percorso circa la metà del percorso sento lei, la Fitta, improvvisa e dolorosa che non mi dà il tempo di riflettere, di fare nulla. Solo di tenere duro. Passi stretti e testa bassa percorro altri 200 metri ma mi è presto chiaro che non riuscirò ad arrivare in casa, comincio a guardarmi intorno e a studiare la situazione. L'unica soluzione è fornita dalla striscia di siepi che separa il marciapiede dal parco alla sua destra, dall'altra parte soltanto il lungo viale.
Disperato recupero i fazzoletti dallo zaino (non mancano mai) e mi fiondo nella siepe nella tipica posizione del marine che sta per catturare un terrorista. Una volta che sono nell'antro mi rendo conto di una serie di cose: non solo il portone di casa sarà a 300 metri da me, ma anche che il parco non è un parco bensì un cimitero (rispetto prima di tutto). La cosa più grave però, che non ho calcolato causa panico e sudori freddi, è che mi sono infilato nel punto più sbagliato di tutto il viale, cioè all'altezza di un semaforo. Come cerco ti ottenere la giusta concentrazione ci sono cinque o sei macchine ferme proprio al mio lato, pregando che i fari non arrivino fino a me aspetto che scatti il verde. Quando, dopo circa 7/8 ore, scatta il benedetto verde posso finalmente concentrarmi: vista l'emergenza sbrigo la pratica in tempo record. Fiero di me, faccio per lasciare il mio cubicolo ma subito mi accorgo che il semaforo è di nuovo rosso che neanche i T-red di Carugate. Nuove auto, nuova attesa. Per concludere in bellezza, quando finalmente salto fuori dal cespuglio non mi accorgo che lo faccio davanti a tre passanti che, prima sorpresi, mi guardano esterefatti. Io, sguardo vacuo, li passo e sento le loro risate che confermano ancora una volta come il temibile bolo post-grigliata crei una delle situazioni più ingestibili.

Purtroppo questa volta la gloria non è arrivata, ma un altro tassello per forgiare l'anima si. Alla prossima grigliata più verdure.


lunedì 26 maggio 2014

Complicate relazioni genitoriali

Si pubblica oggi la testimonianza di Nobita (chiamato cosi in riferimento al moccioso e irritante bambino amico di Doraemon che per ogni cazzata andava a frignare dalla madre). Si noteranno alcune parole in corsivo, segno di una mia censura di termini ritenuti troppo forti per un pubblico raffinato e sensibile.

Ciao Acciaio,

mi sento in dovere di raccontarti la mia disavventura da defcazia che mi capitò circa dieci anni fa, ovvero quando dovetti eliminare una palla grande come un melone.
Accadde tutto subito, fin dalla fermata del pullman lo stimolo mi iniziò a colpire prepotentemente, quindi, mi precipitai a casa correndo forse più veloce di Bolt e mi fiondai nel primo cesso disponibile.
All'inizio sembrava un lavoro come tanti, ma dopo le prime avvisaglie arrivò il momento fatale!
Ebbene si, l' ultimo maledetto (in tutti i sensi) non aveva assolutamente voglia di uscire e quindi rimase incastrato: mezzo busto fuori ed il resto dentro. Il panico ebbe la meglio ed io iniziai ad appoggiarmi, cercando di far leva con il mio corpo per una migliore spinta, alla qualsivoglia. Provai anche a prostrarmi supino fregandomene di un'ipotetica fuoriuscita sul pavimento del mostro sferico, ma ancora nulla. La mia ultima decisione, da uomo virile quale sono, fu la migliore e la più logica in questi casi: chiamai mia madre!
Questa la telefonata:

Io: Mamma?
M: Dimmi
Io: Ho del materiale fecale incastrato nello sfintere anale che non vuole uscire!
M : Sei ancora ubriaco?
Io: No no, non so davvero come fare!
M : Ok, farmi andare in farmacia a prendere i guanti ed arrivo.

Perfetto, dopo aver ragionato un paio di minuti sulla conversazione antecedentemente avuta con la genitrice, iniziai a figurarmi un possibile scenario pornsplatter, quindi , con un ultimo sforzo che neanche nelle gare russe di sollevamento pesi, riuscii ad espellere il relitto.

Pareva una riproduzione in scala 1:3 di una palla da bowling, ma almeno sono sfuggito al maggiore dei pericoli. Quando mi ricomposi, con aria soddisfatta e sorriso beffardo, ricordo di aver pensato la seguente: “Va bene tutto ma non permetterò mai a mia madre di infilarmi la mani nel culo!"


lunedì 19 maggio 2014

Solidarietà e bon ton

Sovente accade che io svolga il dopo-lezione in qualche bar di Kreuzberg, il quartiere dove si trova quella palestra per il linguaggio che è la mia scuola di tedesco. Essendo qui il concetto di aperitivo molto effimero, ripieghiamo sempre sulla cara e vecchia birra, naturalmente c'è l'imbarazzo della scelta.
L'episodio che vado a introdurre si svolge in forse uno dei bar più conosciuti di questo quartiere berlinese: il Kotti Cafè. E visto che siamo in vena di introduzioni, mi tocca annunciare fin da subito che si tratta di una rinuncia; Anche questa volta non me la sono sentita di concludere, giuro però che c'è un valida (e divertentissima) giustificazione. Seguono i fatti:
Un'allegra brigata composta da 5 studenti colmi di sapere quotidiano si avvia verso il primo piano del Kotti Cafè (per chi non lo sapesse, il bar in questione non si trova a livello strada ma al primo piano di un palazzo). Una volta dentro, scatta la liberazione del cervello tramite freschissime e gustosissime Augustiner (che per me è piscio di gatto, ma vabbè).
Dopo la seconda birra aimè, inizia quello che per il mio apparato digerente è ormai un copione collaudato: micro fungo atomico in zona intestinale seguito da cieco panico. Quando mi ricompongo e ridivento padrone della situazione (ma quando mai?), temporeggio e penso ad un piano d'azione per liberarmi dei miei problemi. Dopo circa cinque minuti di pallore e silenzio, decido di fare il grande passo e di avviarmi verso il bagno del Kotti Cafè. A questo punto succede una cosa insolitamente positiva: per qualche strano caso biologico e fisico, i due passi che faccio per andare vero la toilette alleviano e di molto il mio senso di oppressione basso-ventrale.
Ormai però sono già in piedi e decido lo stesso di entrare nel bagno. Infausto, piccolo e maleodorante si presenta come una sfida, sorpasso la piramide di carta bagnata accanto al lavandino, i tre LIMPIDI orinatoi e mi infilo nel cubicolo dove sta collocato il Trono. Da questo momento in poi non sono più padrone della situazione. In realtà nella descrizione del bagno ho omesso un personaggio: davanti ad uno degli orinatoi intravedo quello che è chiaramente un energumeno tedesco visibilmente ubriaco. Nel momento in cui io provo a chiudere la porta del mio cubicolo, il tedescone decide di accogliermi in bagno con un roboante quanto improvviso scorreggione seguito da una frase che suonava più o meno cosi: “Questa era forte, eh? Ohohohohoh!”.
Ebbene io da quel momento ho cominciato a ridere come un cretino senza più riuscire a smettere, tant'è che esco dal bagno senza fare nulla.
Quando arrivo al mio tavolo gli altri astanti (che ormai conoscono bene la mia croce) notano il mio sorriso e credono di conoscere il motivo della mia felicità. Sbagliano. La verità è che anche tra le emissioni intestinali esiste una certa solidarietà.

martedì 29 aprile 2014

Medici senza vergogna

Anche questa settimana viene riportata una testimonianza molto importante, non solo perchè ancora una volta viene rappresentato il gentil sesso, ma anche perchè la storia si svolge oltreoceano e più precisamente in Brasile.
Protagonista della tragica avventura è colei che verrà nominata La Dottoressa Giò (in riferimento alla carriera professionale intrapresa dalla nostra ma anche un omaggio ad una Barbara D'urso in grande spolvero). Che cosa ci fa la Dottoressa Giò in Sudamerica? Forse ha deciso di prestare le sue competenze per qualche causa umanitaria, o forse sta intraprendendo un viaggio per verificare lo stato di uno dei sistemi sanitari più in crescita del mondo. Nulla di tutto questo: Giò è in Brasile a fare uno stage di danza.
Il viaggio è già stato organizzato di tutto punto prima della partenza e una volta che il gruppo arriva a Salvador de Bahia, la Dottoressa Giò viene letteralmente stipata insieme ad altre duecento persone in una palestra ed a questo punto è necessario fare un inciso molto importante. Detto il tipo di stage, non è stato specificato il tipo di danza: la Capoeira. Ora, la mia adolescenza è stata forgiata sugli insegnamenti che la Playstation ha generosamente voluto donarmi, quindi, quando io sento di parlare di capoeira non posso fare a meno di immaginarmi una schiera di Eddy Gordo di Tekken 3. A chi non accade lo stesso è segno di vecchiaia o infanzia terribile, l'ho detto.
Tornando a noi, la Dottoressa Giò, forte d'animo, gradisce la sistemazione di fortuna e anzi la considera un'occasione per la socialità, peccato che. Peccato che non fa i conti con il proprio apparato digerente che comunque avrebbe dovuto studiare; Il dramma è presto in scena. Giò, dopo una veloce perlustrazione, si rende conto con orrore che la palestra occupata da duecento persone dispone soltanto di quattro bagni. Tragedia.
A questo punto il medico più promettente del panorama europeo si fa prendere dal panico. Autodefinendosi “culo timido”, non riesce a trovare il bandolo della matassa per risolvere l'annoso rebus dell'evacuazione. Dopo concitati minuti, Giò trova la geniale soluzione approfittando anche di una caratteristica tipica femminile: poter trattenere il bandolo della matassa (o solo la matassa) per ore e ore e ore. Il piano è il seguente: assumendo un'espressione facciale più falsa di Giuda mentre intasca i denari, la Dottoressa Giò propone ad altre persone una veloce visita al moderno centro commerciale vicino alla palestra, “cosi, per far due passi”. Gli altri accettano senza sapere di essere diventati pedine di un vile tranello. Dopo qualche minuto di camminata, il gruppo di persone arriva dentro il lussureggiante centro commerciale e, appena passata lo porta d'ingresso, Giò si dilegua in una frazione di secondo bofonchiando parole come “casualità” “bagno” “pipì”. Si riunirà al gruppo ore dopo. Provata ma felice.

Non è dato sapere se le altre persone facenti parte della spedizione “Centro commerciale” abbiano mai saputo delle reali intenzioni della Dottoressa Giò. Quel che è importante sottolineare è che ancora una volta uno dei non-luoghi per eccellenza si sia rilevato una grande risorsa per l'individuo che si trova con le spalle al muro. In Brasile come nella grigia pianura padana, anche i Culi timidi hanno il loro approdo.


lunedì 14 aprile 2014

Marrone notte

Avviso all'incauto lettore: la seguente narrazione tocca dei livelli di disgusto solitamente evitati in questo rispettabile blog, ma il peso degli eventi impone un report crudo e frontale.
La testimonianza che viene a seguito riportata arriva questa settimana dalla Spagna, e più precisamente in quella che è notoriamente una delle città più bifolche della penisola iberica: Valencia. Protagonista dell'orrida situazione è colui che verrà chiamato El Chapo, riferito al noto capo del cartello della droga messicana, ovvero rude, vagamente sovrappeso e senza vergogna.
La situazioni è delle migliori: Botellon in una nota zona della città dove l'affluenza dei giovani virgulti desiderosi di lasciarsi andare per qualche ora è decisamente buona, tra questi vi è anche El Chapo con la sua allegra banda di amichetti. Descritto da questi ultimi come un tipo decisamente sopra le righe, El Chapo si distingue tra i presenti per il suo spiccato senso di testa-di-cazzaggine che lo porta, tra le altre cose, ad ingurgitare innumerevoli galloni di liquidi alcolici intervallati da ogni tipo di porcheria reperibile per strada e per il piccoli minimarket che costellano le vie di Valencia.
La festa si alza di livello e un gruppo di borrachones decide di spostarsi nell'elegante abitazione di uno degli invitati. Nel tragitto dalla piazza alla casa, El Chapo riesce a far scatenare una rissa con altri quattro Lords. Dopo alcuni educati scambi di cortesia, il nostro eroe riesce da solo a sbarazzarsi dei balordi e raggiunge trionfante la casa. Ma evidentemente lo sforzo della battaglia deve aver pesato perchè al Chapo crollano le gambe all'improvviso e, complice il maledetto mix nel suo stomaco, si accascia su un divano. Gli amici non osano destare il can che dorme cosi lo abbandonano su quel divano per ore. Purtroppo quegli stessi amici non notano che El Chapo ad un certo punto si alza dal suo giaciglio e si avvia verso il bagno. Dentro quello stanzino succedono cose inimmaginabili. La cronaca racconta che all'alba tutti se ne siano andati nelle proprie casa e che anche il proprietario stesso si sia diretto dritto dritto nel letto.
Il pomeriggio seguente accade la seguente scena: lo stesso proprietario si alza dal letto e mezzo rincoglionito se ne va verso il suo bel water, ma quando apre la porta dello stanzino si para davanti a lui una scena del delitto.
La prima occhiata va verso il water: nessuno vi è sopra appollaiato e il water stesso è in perfette condizioni. Rapido sguardo al centro dove il lavandino sembra essere stato risparmiato, ed ecco il dramma nella vasca da bagno. In questa ci sono tre cose, ognuna sbagliata a modo suo: un sacco d'acqua, inspiegabilmente qualcuno deve averla riempita. Secondo: El Chapo in stato d'incoscenza che dorme beato con tanto di vestiti e scarpe, ma soprattutto la terza: una strana paperella di gomma che in realtà non è paperella e non è nemmeno di gomma. Parafrasando Elio sembra proprio un dirigibile marrone senza elica e timone. Dramma. Urla. Pianti.

Purtroppo tutt'oggi non è ancora chiara la dinamica dei fatti e le domande senza risposta sono molte: chi ha riempito l'acqua? Il dirigibile quando è stato introdotto nella vasca? Prima dello svenimento del Chapo o addirittura prima che egli vi entrasse? Ma soprattutto, è davvero suo? Ci sono le basi per un nuovo libro di Dan Brown e purtroppo questa storia rimane senza un finale. Ma un mistero che ha caratteri biblici.


lunedì 7 aprile 2014

Condivisioni

Abito in una WG, ovvero in una casa condivisa che sta in un feudo turco all'interno di Berlino. Nell'appartamento vive oltre a me, una ragazza di teutoniche origini (che per questo verrà chiamata con un nome dei più leggiadri della cultura tedesca: Gudrun).
Una delle particolarità della nostra casetta è quella di avere un signor bagno, ovvero una stanza vera, con una finestra vera ed una doccia vera, qualità piuttosto rare da trovare nelle case della capitale e infatti questo è uno dei motivi per cui la casa mi è piaciuta fin dalla prima volta che l'ho vista.
La condivisione del bagno non ha mai dato nessun problema, il che è una grande fortuna per Gudrun che se avesse saputo non mi avrebbe nemmeno fatto entrare in casa; E' anche vero che prima o poi doveva succedere. In un sabato mattina come un altro (che la mia coinquilina chiama inspiegabilmente pomeriggio, saranno differenze culturali visto che erano le 14), sento il classico stimolone che proviene dal basso. Mi alzo dalla mia sedia e vado in bagno, che però trovo chiuso a chiave, pazienza, aspetto. Neanche il tempo di finire in pensiero “aspetto”, che sento il rumore della doccia che si accende, perfetto. Sto già sudando freddo.
Questa volta non è come il casa di Acciaia che posso bussare e cacciare chi c'è dentro (vedi qui), mi tocca aspettare e far partire la maratona di apnea, che, diomiosantissimo, durerà un'eternità: un mezz'oretta buona in cui alterno lo stare seduto in punta di sedia allo stare in piedi fissando il vuoto fuori dalla finestra con nel gambe a X. Finalmente una giustizia c'è, sento il classico “clak” della porta che si apre e io, manco fossi l'Usain Bolt dello sciacquone, scatto verso il bagno e con un'acrobazia sono già seduto sulla tazza ad espellere il maligno.
Fiero e tronfio, mentre sto ultimando i lavori sento la maniglia della porta che si abbassa, Gudrun se la trova bloccata ed è costretta a tornare indietro. Intuisco che forse non aveva finito di fare le sue cose e infatti quando esco dal bagno la trovo con un asciugamano in testa e mille spazzole in mano mentre tenta di riconquistare il bagno. Io nel mio stentato tedesco la avverto che forse sarebbe meglio aspettare qualche minuto, il tutto detto con il più falso dei sorrisi. Ma lei, intrepida, solida e teutonica, ne sfoggia un altro ancora più falso del mio ed entra nella stanza contaminata.

Da allora non l'ho più rivista.